Il disturbo da deficit dell’attenzione e da iperattività (DDAI) è il più comune e controverso disturbo neurobiologico diagnosticato nei bambini.
Secondo i criteri del DMS IV, il manuale di riferimento dei disturbi psichiatrici, esistono tre sottotipi di tale disturbo:
- il disturbo della disattenzione
- il disturbo da iperattività/impulsività
- il disturbo che combina la disattenzione con l’iperattività.
La diagnosi si effettua, di solito, con una valutazione dei comportamenti osservati dai genitori, dagli insegnanti e dal medico.
Le controversie sulla diagnosi sono dovute:
a) ai criteri di valutazione (che si sono modificati nel tempo)
b) al diverso peso attribuito agli stessi criteri in ambiti e luoghi diversi (si va da diagnosi che spaziano da una prevalenza del 5% al 20% della popolazione e/o da 1 alunno su 10 a 5 alunni su 100)
c) la presenza di altre patologie in alcuni bambini con DDAI, che complicano la diagnosi.
I recenti progressi anatomo-funzionali aiutano a chiarire il quadro:
· Uno studio (diretto dal pediatra Xavier Castellanos al National Institute of Mental Health (NIMH) a Bethesda - comparso sul numero di luglio degli “Archives of General Psychiatry”) analizza alla MRI (Imaging da Risonanza Magnetica) le immagini cerebrali di 57 ragazzi con DDAI e li paragona a quelle di 55 ragazzi senza DDAI. Da tale indagine risulta che nell’emisfero destro: la parte frontale del cervello ed i gangli basali sono del 10% più piccoli nei ragazzi con DDAI.
Si ritiene che queste due aree siano essenziali nel focalizzare l’attenzione, bloccare la distrazione ed inibire alcuni comportamenti. Un deficit in questi circuiti può quindi causare comportamenti impulsivi, ossia l’agire irriflessivamente – senza pensare.
Lo stesso gruppo di ricercatori sta ora conducendo una ricerca simile sulle ragazze affette dallo stesso disturbo.
· B.J. Casey, un ricercatore alla University del Pittsburgh Medical Center, insieme ai suoi colleghi – per mezzo della fMRI (imaging da risonanza magnetica funzionale) misura il flusso sanguigno cerebrale mentre il cervello lavora – in tal modo questi ricercatori stanno valutando le differenze funzionali nei cervelli di bambini che soffrono di DDAI e di bambini non affetti dal disturbo. L’esame eseguito ha rilevato una notevole variabilità individuale nell’attivazione di diversi circuiti cerebrali ma ha, allo stesso tempo, confermato una minore attivazione dei circuiti inibitori dei bambini con DDAI.
Non si sottolineerà mai abbastanza che un riscontro anatomo-funzionale di una diagnosi, così come un eventuale reperto di correlazione assetto genetico-disturbo non chiarisce la dinamica dell’interazione ambiente-substrato.
Si sa ancora troppo poco sul cervello, la genetica, l’ambiente per poter con certezza dichiarare quali fattori genetici sono influenzati (e in che modo e in quale misura) da quali fattori ambientali – sui quali peraltro si tende ad indagare poco, soprattutto quando si ritiene che la componente genetica sia prevalente.
Questa sottolineatura è importante per ricordare che vi è una persistente e duratura plasticità del cervello: il cervello si modifica (funzionalmente e strutturalmente) interagendo con l’ambiente.
Sapere quale struttura cerebrale o quale funzione è alterata aiuta ad intervenire in modo più mirato e costruttivo, mai a dare per scontato che “non c’è niente da fare”. Sento la necessità di ribadire ogni volta questo concetto perché sempre più spesso mi trovo di fronte ad un atteggiamento fatalista che non so se sia più volto a crearsi un alibi del disimpegno (chi non tenta non fallisce) o a confermare una pessimistica convinzione di ineluttabilità (non sperando non si rimane delusi), che purtroppo promuove un comportamento rinunciatario e una mancanza di impegno nel recupero.
Ricordiamoci che il “dogma centrale” (e la scienza non ha dogmi) della medicina dava per acquisito che nel cervello adulto non ci sono cellule staminali, né si creano cellule nuove; cognizioni ampiamente smentite dagli studi più recenti.
A cura di Giovina Ruberti