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Nuove ipotesi sull'intelligenza

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Sia la medicina che la psicologia sono interessate allo studio dell’intelligenza, ne hanno cercato le basi fisiologiche e, in passato, considerate la grossolanità dei mezzi a disposizione e dei pregiudizi razzisti, sono emerse le ipotesi più varie:

·         La correlazione diretta dimensione del cranio/grado di intelligenza 

·         La fisiognomica (forma del cranio/presenza di particolari attitudini)

·         La misurazione meccanica di un “quoziente di intelligenza” ricavato da test standardizzati, ecc. – ancora larghissimamente e, a volte acriticamente, utilizzati.

Tale studio non accenna a diminuire, anzi non fa che incrementarsi:

·         in ambito psicologico i metodi rimangono, sostanzialmente, psicometrici ed osservativi;

·         in ambito medico, i notevoli progressi dell’imaging cerebrale rendono esplorabili, con sempre maggior definizione, sia l’anatomia sia la fisiologia fine, mentre gli studi genetici  fanno altrettanto con la relazione profilo genetico/caratteristiche individuali.

Per quanto attiene allo studio “biologico” dell’intelligenza il Dr.Richard J. Haier, professore della Scuola di Medicina dell’Università di California, uno dei teorici della nuova ipotesi P-FIT (Parieto-Frontal Integration Theory/Teoria dell’Integrazione Parieto-Frontale):

“ C’è un pericolo in questo tipo di ricerche, proprio come per le ricerche sulle basi biologiche della violenza e dell’aggressività: è il pericolo dell’uso che si farà di tali informazioni.” 

Vorrei aggiungere, oltre a ciò – considerata la diffusa presenza di pregiudizi razziali ed ideologici di molti scienziati coinvolti in tali studi – c’è anche il rischio di “ipotesi a priori” da confermare con studi ad hoc, non del tutto limpidi.

Tali premesse non devono tuttavia essere usate per porre delle “barriere preventive” a ricerche di questo tipo, né tanto meno per precludere l’indagine genetica-funzionale che sarà sicuramente foriera di promettenti ricadute terapeutiche sia per le malattie dello sviluppo sia per quelle degenerative del sistema nervoso.

Se ho introdotto queste avvertenze e solo per far sì che si comprenda sempre meglio l’importanza di diffondere le conoscenze scientifiche acquisite sviluppando, allo stesso tempo, la capacità di discernere indebiti “dogmi” ideologici da teorie plausibili.

Dagli studi finora condotti è emerso un diffuso consenso che l’intelligenza non dipenda solo dall’efficienza e dalle capacità delle varie regioni cerebrali ma anche dalla forza delle connessioni che le legano.

Torniamo ora all’ipotesi, citata all’inizio: Richard J. Haier, professore della Scuola di Medicina dell’Università di California, e Rex E. Jung, ricercatore del “Mind Research Network” di Albuquerque, New Mexico, basandosi su un’indagine condotta su 37 “neuroimaging” hanno sviluppato la suggestiva teoria che attribuisce l’intelligenza umana ai circuiti che collegano i lobi frontali (che sono implicati nella pianificazione, nell’organizzazione ed in altre abilità umane estremamente sofisticate) con le regioni parietali posteriori (che integrano l’informazione).

Secondo tali studiosi, la “Teoria dell’integrazione Parieto-Frontale – o P-FIT (dall’inglese Parieto-Frontal Integration Theory)” spiega meglio il perché l’intelligenza dipenda da numerose regioni strettamente legate da assoni che formano “autostrade dell’informazione”, come risulta dalle ricerche.

Il modello di Haier e Jung sottolinea che la velocità di trasmissione tra varie regioni cerebrali “fa la differenza”.

Prima di tale teoria molti scienziati consideravano i lobi frontali, la sede dell’intelligenza.

Danni ai lobi frontali provocano effetti sulla motivazione, sulla capacità di fare previsioni, sulla modulazione delle emozioni e su altre funzioni superiori ma, raramente, peggiorano il quoziente d’intelligenza.

Il Dr. Haier sostiene: “I lobi frontali sono importanti per l’intelligenza secondo quasi tutti gli studi di imaging , ma è così anche per altre aree cerebrali. L’intelligenza implica una rete che include i lobi frontali ma non è basata esclusivamente su di essi”.

Secondo Haier la scarsa correlazione intelligenza/velocità di elaborazione emersa da innumerevoli studi sulla velocità di elaborazione neurale è legata alla “superficialità” con cui sono state condotte tali indagini. Persino con un accurato studio di EEG (elettroencefalogramma) si può vedere come vi sia un legame tra velocità di elaborazione ed intelligenza.

Per quanto riguarda i risultati ottenuti in ambito genetico emerge (studi sui gemelli identici) che i geni contribuiscono all’intelligenza e che, paradossalmente tale contributo aumenta con l’età: nei bambini è inferiore al 50% - sempre riferendosi a gemelli identici – nelle persone più anziane, di 60 – 70 e 80 anni, il contributo aumenta fino all’80%. Man mano che si invecchia l’ereditabilità dell’intelligenza si accresce, il che significa che le influenze ambientali diventano meno significative nel corso del tempo e quelle genetiche più pronunciate.

Il contributo genetico all’intelligenza coinvolge innumerevoli geni ciascuno dei quali fornisce un apporto minimo. Le moderne tecniche di scannerizzazione del genoma rendono confrontabili, in tempi rapidissimi, miliardi di coppie di basi genetiche di migliaia di soggetti. Da ciò deriva la possibilità di confrontare il DNA di persone molto intelligenti con quello di persone di intelligenza media (individuate con i test?).  Da tale confronto si possono scoprire i geni che intervengono sulla differenza di intelligenze.

E’ prevedibile che tali studi porteranno ad ipotesi realistiche sulle prestazioni individuali ricavabili da indagini di imaging ed anche alla possibilità di migliorare le prestazioni intellettuali conoscendone la biochimica.

Un giorno forse i farmaci usati per curare l’Alzheimer ed i disturbi della memoria potranno servire anche per migliorare le capacità di apprendimento e la memoria in generale.

Rex Jung sostiene: “La genetica non è il destino. Essere capaci di individuare le predisposizioni genetiche fornirà incredibili opportunità di lavorare nell’ambiente per incrementare l’intelligenza e massimizzare negli individui il loro potenziale intellettivo”, tutto ciò tramite una migliore comprensione dei meccanismi fisiologici dell’intelligenza che  renderanno possibile un’istruzione più appropriata e disponibili altri ausili.

A cura di Giovina Ruberti

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